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L'INPS può chiedere la restituzione delle somme in eccesso?

APPROFONDIMENTI
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Ogni anno l’INPS invia richieste di restituzioni di pensioni corrisposte in misura maggiore a quella dovuta. Scopriamo cosa succede quando l’INPS commette questo “errore”: ha diritto a richiedere al pensionato la restituzione dell’indebito?

L’INPS negli anni per sostenere il proprio diritto alla restituzione dell’indebito pensionistico si è avvalso dell’articolo 2033 c.c., il quale fissa il principio per cui chiunque “ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato”, specificando che la buona o la mala fede di chi ha ricevuto tale somma non dovuta assume rilevanza soltanto ai fini della quantificazione degli interessi, ma non al fine di inficiare la legittimità della restituzione.

In realtà, la materia previdenziale, come affermato in giurisprudenza (Cass. Civ. 482/2017), non è sottoposta alla norma generale del codice civile, essendo che esiste una normativa di “carattere speciale” che deroga il disposto di cui all’articolo 2033 c.c. e sancisce l’irripetibilità dell’indebito pensionistico.

La legge n. 88/1989, recante norme sulle “Ristrutturazione dell’Istituto nazionale della previdenza sociale e dell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro” prevede all’articolo 52 al comma 1 che “Le pensioni [...] possono essere in ogni momento rettificate dagli enti o fondi erogatori, in caso di errore di qualsiasi natura commesso in sede di attribuzione, erogazione o riliquidazione della prestazione” e prosegue al comma 2 spiegando che "nel caso in cui, in conseguenza del provvedimento modificato, siano state riscosse rate di pensione risultanti non dovute, non si fa luogo a recupero delle somme corrisposte, salvo che l’indebita percezione sia dovuta a dolo dell’interessato. Il mancato recupero delle somme predette può essere addebitato al funzionario responsabile soltanto in caso di dolo o colpa grave”.

L’articolo 52 della l. 88/1989 è stato interpretato successivamente dall’articolo 13 della legge n.412/1991, che ha disposto che “la sanatoria ivi prevista opera in relazione alle somme corrisposte in base a formale, definitivo provvedimento del quale sia data espressa comunicazione all’interessato e che risulti viziato da errore di qualsiasi natura imputabile all’ente erogatore, salvo che l’indebita percezione sia dovuta a dolo dell’interessato. L’omessa od incompleta segnalazione da parte del pensionato di fatti incidenti sul diritto o sulla misura della pensione goduta, che non siano già conosciuti dall’ente competente, consente la ripetibilità delle somme indebitamente percepite”. Continua asserendo che l’ente di previdenza ogni anno verifica le situazioni reddituali dei pensionati ed entro l’anno successivo provvede al recupero di quanto pagato eventualmente in eccedenza.

Il medesimo concetto di irripetibilità dell’indebito pensionistico, a meno che non vi sia dolo da parte del pensionato, è sottolineato ulteriormente dall’articolo 206 del D.P.R. n. 1092/1973, “Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato”, per il quale “nel caso in cui, in conseguenza del provvedimento revocato o modificato, siano state riscosse rate di pensione o di assegno ovvero indennità, risultanti non dovute, non si fa luogo a recupero delle somme corrisposte, salvo che la revoca o la modifica siano state disposte in seguito all'accertamento di fatto doloso dell'interessato.”

Ma quando sussiste il dolo? Certamente si parla di comportamento doloso quando il pensionato pone in essere un’attività illecita – rilevante in sede penale -, ma anche alcuni comportamenti quali l’indicazione incompleta dei propri dati nella dichiarazione del proprio reddito o l’omissione di fatti determinanti il proprio diritto o la misura della prestazione, che il beneficiario è tenuto a comunicare e che non siano già a conoscenza dell'ente, integrano un comportamento doloso.

Dunque, non sempre è possibile applicare il principio di irripetibilità dell’indebito.
Ad esempio, nel caso in cui la prestazione pensionistica in esubero è stata causata non da un errore imputabile all’INPS ma da un errore generato dalla trasmissione inesatta dei dati da parte del datore di lavoro, non corretta da parte di questi, il principio non si applica (Cass.Civ. 14517/2020).

Anche un comportamento reticente del pensionato integra un comportamento doloso, se, ad esempio, questi, avendo ricevuto una somma esageratamente eccessiva in rapporto allo stipendio percepito, fosse in grado di riconoscere l’errore in quanto risulta inverosimile quella somma pensionistica. Sarà dunque necessario verificare anche l’entità dell’errore commesso dall’ente, se “minima” o “esagerata” e, quindi, se facilmente o meno conoscibile da parte del pensionato che ha ricevuto l’eventuale somma indebita.

La Corte d’Appello di Trento, n. 24/2017, infatti, così ha dedotto “in una situazione siffatta, in cui il beneficiario della pensione abbia omesso di segnalare una evidentissima discrasia nella liquidazione provvisoriamente eseguita dall’INPS, facilmente ravvisabile a ragione della clamorosa discrepanza, rilevabile dunque senza sforzo e con i connotati dell’ovvietà, tra stipendio ricevuto in costanza di lavoro e pensione successivamente erogata (nel caso concreto nella misura di quasi il doppio), non vi è più ragione per tutelare ad oltranza, e cioè oltre il termine annuale di cui sopra detto, l’affidamento del percepiente il quale, a fronte della peculiarità della situazione nei termini sopra descritti, abbia dolosamente omesso di segnalare a1l’INPS l’errore commesso in sede di liquidazione provvisoria e la necessità di correggerla prima di procedere a quella definitiva. In una situazione di provvisorietà della liquidazione, insomma, ancorché protrattasi nel tempo oltre l’anno, non vi è ragione di tutelare ad oltranza chi abbia voluto coscientemente approfittare di un errore clamorosamente evidente e ben riconoscibile dell’Ente erogante la pensione.”

Ma in caso di indebito su chi grava l’onere della prova?

Secondo la Cassazione, in tema di indebito previdenziale, l’onere della prova è a carico esclusivo di chi ha ricevuto lo somma non dovuta. Questi, al fine di ottenere accertamento negativo dell’obbligo di restituire quanto l’INPS ritenga indebitamente, dovrà provare i fatti o l’esistenza di un titolo che qualificante la correttezza della somma ricevuta (Cass. Civ. 26231/2018; Cass. Civ. 1228/2011; Cass. Civ. Sez.U. n. 18046/2010).

Il pensionato che ha ricevuto “in più”, nell’eccepire che l’INPS non si è attivato effettuando la cosiddetta verifica annuale delle situazioni reddituali (ai sensi dell’art. 13, comma 2, della l. 412/91), dovrà provare che l’indebito era inesistente oppure che, in caso fosse esistente, l’indebito è da imputarsi ad un errore determinato dall’erronea valutazione da parte dell’ente previdenziale che poteva essere a conoscenza dell’errore essendoci stata comunicazione da parte del pensionato.

L’INPS, però, dovrà indicare nel provvedimento amministrativo di recupero del credito gli estremi del pagamento e le ragioni che non legittimerebbero la corresponsione delle somme erogate al fine di consentire al pensionato di effettuare i necessari controlli sulla correttezza della pretesa, dunque non può semplicemente limitarsi a contestare genericamente l’indebito. (Cass. Civ. 198/2011).

L’azione restitutoria degli indebiti pensionistici è quello ordinario di dieci anni che decorre dalla data della comunicazione dell’indebito.

Un’eccezione è rappresentata dal caso in cui la domanda restitutoria è causata da errori nell’ambito del calcolo dei redditi del pensionato per il quale è, invece, previsto un termine di prescrizione di un anno. Tale termine di prescrizione decorre dalla conoscenza (effettiva o potenziale) da parte dell’ente previdenziale degli elementi necessari necessari alle operazioni di recupero o dalla data di esito delle verifiche della situazione reddituale del soggetto.

 

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