Ius soli: questione reale o immaginaria?

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Favorevoli o contrari allo ius soli? Riflessioni su Tar Lazio, Roma, I Ter, sentenza 10 novembre 2017, n. 11193. Lo ius soli (in latino, “diritto del suolo”) è un’espressione giuridica che indica l'ottenimento della cittadinanza di un dato Stato come conseguenza della nascita nel suo territorio, indipendentemente dalla cittadinanza dei genitori. Si contrappone allo ius sanguinis (“diritto del sangue”) che invece indica l’ottenimento della cittadinanza in base alla nazionalità dei genitori. Dunque, per riassumere, lo ius soli indica l’ottenimento della cittadinanza in base al luogo di nascita, mentre lo ius sanguinis in base alla discendenza.

Nella sua versione “pura”, lo ius soli implica che chi nasce in uno Stato ne acquisti la cittadinanza in maniera automatica. Nella sua versione “temperata”, implica che l’acquisto della cittadinanza avvenga al sussistere di ulteriori requisiti indicati dalla legge.

La proposta di legge sullo ius soli formulata dal centrosinistra nel 2015, non approvata per l’opposizione del centrodestra e del Movimento Cinque Stelle, prevedeva uno ius soli “temperato”, con alcuni paletti (nella versione originale della proposta di legge, il fatto che almeno un genitore dovesse essere legalmente residente in Italia - si veda la Scheda dei lavori del Senato).

Il dibattito sullo ius soli è legittimo ma forse fuorviante.

Si consideri quanto segue. Gli stranieri possiedono già adesso parecchi diritti, ma lo Stato italiano non li rispetta. È previsto, ad esempio, che uno straniero residente in Italia dopo 10 anni possa ottenere la cittadinanza (art. 9, comma 1, lett. f, l. n. 91/92), se si è integrato nella società italiana e ha mantenuto una condotta irreprensibile. Lo Stato italiano, entro due anni dalla richiesta di cittadinanza, deve emettere un provvedimento espresso. Due anni sono un’attesa enorme, visto e considerato che la legge italiana sul procedimento amministrativo prevede un termine “normale” di 30 giorni per concludere un provvedimento amministrativo (art. 2 l. n. 241/90). Ma la cosa peggiore è che questo termine, già di per sé piuttosto lungo, spesso viene violato. Perché lo Stato impiega anche il triplo del tempo per riscontrare le istanze.

Emblematico è il caso di un cittadino dello Sri-Lanka, residente da oltre 20 anni a Palermo, che nel maggio 2012 aveva presentato la domanda per l’ottenimento della cittadinanza italiana. Nell’agosto 2017, malgrado i diversi solleciti inviati al Ministero dell’Interno, lo straniero non aveva ancora ottenuto un provvedimento espresso. Eppure era incensurato e perfettamente integrato nella società italiana, tanto che gli altri familiari avevano già ottenuto la cittadinanza.

Il cittadino, assistito dallo Studio Legale Sidoti & Soci (con la collaborazione dell’avvocato Roberto Carmina del foro di Palermo), ha quindi proposto ricorso contro il Ministero dell’Interno, dinanzi al Tar Lazio. Pochi giorni dopo aver depositato il ricorso, il Ministero dell’Interno ha finalmente concesso la cittadinanza ed il Tar ha quindi compensato le spese di giudizio (se il Ministero non avesse provveduto, il Tar avrebbe probabilmente condannato il Ministero a pagare le spese legali, con quanto ne consegue in termini di responsabilità erariale).

Quindi, prima di introdurre nuovi diritti a favore degli stranieri, forse bisognerebbe cominciare a rispettare quelli già esistenti. Perché se la legge riconosce il diritto ad ottenere la cittadinanza italiana entro due anni, ma lo Stato ne impiega cinque, ci si trova di fonte a una stortura da eliminare.

Non vale dire che le questure italiane hanno poco personale. Infatti, per potere richiedere la cittadinanza, gli stranieri pagano un cospicuo “contributo” di 200 euro destinato a coprire gli oneri connessi all’attività istruttoria del Ministero dell’Interno (art. 9 bis l. n. 91/92). Lo Stato dovrebbe usare queste risorse per assumere nuovo personale.

Se invece il problema sono le procedure amministrative, troppo farraginose, non si comprende perché l’esecutivo non le ha semplificate. Se un sistema non funziona, occorre avere il coraggio di riformarlo.

La summenzionata sentenza dimostra comunque una cosa. A prescindere dalla buona volontà dell’Amministrazione, uno straniero oggi ha uno strumento efficace per porre fine ai ritardi dell’Amministrazione: il ricorso al Tar Lazio contro il “silenzio-inadempimento” previsto dall’art. 117 del codice del processo amministrativo (“1. Il ricorso avverso il silenzio è proposto, anche senza previa diffida, con atto notificato all'amministrazione […] 2. Il ricorso è deciso con sentenza in forma semplificata e in caso di totale o parziale accoglimento il giudice ordina all'amministrazione di provvedere entro un termine non superiore, di norma, a trenta giorni. 3. Il giudice nomina, ove occorra, un commissario ad acta con la sentenza con cui definisce il giudizio o successivamente su istanza della parte interessata...”).

Il ricorso ex art. 117 cpa, utilizzato dal cittadino dello Sri-Lanka, consente infatti di ottenere il decreto di riconoscimento in poche settimane e a costi contenuti, se non addirittura gratuitamente (ma solo nel caso in cui lo straniero possieda i requisiti reddituali per ottenere il “patrocinio a spese dello Stato”).

Di fronte a un’Amministrazione che viola i termini per la conclusione del procedimento amministrativo non bisogna avere paura di reagire, ma occorre rivolgersi al Giudice Amministrativo italiano.

 

Link utili:

- Provvedimento del Tar Lazio che dichiara la cessazione della materia del contendere (Tar Lazio, Roma, I Ter, sentenza 10 novembre 2017, n. 11193):

https://www.giustizia-amministrativa.it/cdsintra/wcm/idc/groups/public/documents/document/mday/njew/~edisp/6xah4mg76u4ohsh4hgzcrigxra.html

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